Basilica Santa Giustina
Nel tempo in cui la Patavium romana era nel suo massimo splendore, nella zona in cui ancora oggi sorge la Basilica e il Monastero di Santa Giustina, c’era uno o più sepolcreti dell’aristocrazia pagana e un cimitero cristiano. Qui il 7 ottobre del 304 fu deposto il corpo della giovane Giustina, messa a morte perché cristiana per sentenza dell’Imperatore Massimiano, allora di passaggio a Padova.
Poco dopo il 520, ad opera di Opilione, prefetto del pretorio e patrizio, sorse la prima Basilica con l’attiguo Oratorio, decorata di marmi preziosi e di mosaici. Se ne ha una descrizione nel 565 in Vita S. Martini, Libro IV, 672-670, di Venanzio Fortunato. La Basilica cimiteriale oltre alle spoglie della Patrona della città e diocesi, fu arricchita di corpi e reliquie di molti santi, luogo di sepoltura prescelto dai vescovi. Divenne così, già nel secolo VI, meta di pellegrinaggi dal momento che il culto di S. Giustina era ormai diffuso nelle zone adiacenti al litorale adriatico. Bisogna risalire al 971 per avere notizie certe circa la presenza dei monaci benedettini a S. Giustina e questo per merito del vescovo di Padova Gauslino, il quale col consenso del suo Capitolo ristabilì un monastero sotto la Regola di S. Benedetto, dotandolo di beni territoriali, di chiese e cappelle in città e in campagna. Iniziò così lo sviluppo progressivo operato dai monaci, che tanti benefici apportarono a tutto l’agro padovano con le bonifiche terriere che trasformarono le immense paludi e le sterminate boscaglie in distese di fertilissime campagne.
A questi anni si deve ascrivere la rimessa in luce dei corpi dei Santi, che opportunamente il popolo padovano nascose durante gli anni oscuri delle invasioni barbariche. Così il 2 agosto 1052 si esumarono i corpi di S. Massimo Vescovo, S. Giuliano, S. Felicità Vergine e dei SS. Innocenti; il 26 dicembre del 1075 tornò alla luce il corpo di S. Daniele, diacono e martire, poi nel 1174 il corpo di S. Giustina e nel 1177 quello di S. Luca Evangelista. Non mancarono le calamità: nel 1117 il terremoto che sconvolse tutta l’Italia settentrionale gettò a terra la Basilica di Opilione, lasciando però intatto il Sacello annesso, che possiamo ammirare ancora oggi. Nel contempo Enrico V spogliava i monaci di tutti i loro averi per punirli della loro fedeltà al Papa Pasquale II.
Dalla lunga serie degli Abati di questo periodo si ha anche notizia della vita ascetica e spirituale dei monaci. Basti ricordare il Beato Arnaldo da Limena, lasciato morire in prigione dal tiranno Ezzelino da Romano, Nicola di Prussia che ebbe culto pubblico come beato, ed il Venerabile Ludovico Barbo che portò al massimo splendore il Monastero con la Riforma monastica da lui voluta e diffusa in tutta l’Europa, la Congregazione di S. Giustina “De Unitate”. Fu molto stretto anche il rapporto con l’Università degli Studi di Padova con scambio reciproco di professori. Si intensificarono anche relazioni con i più grandi dotti d’Europa e il campo degli studi si allargò sempre di più; ci fu una serie ben nutrita di cultori eminenti, non solo delle scienze sacre, ma anche delle belle lettere, della diplomatica, delle scienze naturali, delle matematiche e della numismatica. In questo contesto si sviluppò la Biblioteca esistente certamente fin dai tempi antichi come si può arguire dalla presenza nel suo seno di opere letterarie e di manoscritti preziosi. Si creò perfino una scuola di copisti e miniaturisti con Jacopo Zocchi e Palla Strozzi. Attraverso varie cessioni al Monastero, di intere pregevolissime biblioteche, quali la biblioteca del Conte Scipione Boselli e del celebre Giovanni Poleni, si ebbe accesso ad un patrimonio librario di circa 80.000 volumi.
Il 1797 con l’avvento della Repubblica Cisalpina, vide la fine di tanto lavoro svolto nei precedenti secoli: furono messi sotto sequestro i beni del Monastero e furono spediti a Parigi i manoscritti e le edizioni più preziose della Biblioteca; la chiesa e il monastero furono spogliati di arredi e opere di pregio. Nel 1806 furono confiscati i beni mobili e immobili e venduti a privati, la biblioteca fu posta sotto sigillo e l’anno seguente se ne permise la riapertura, ma la maggiore e migliore parte del fondo librario era sparita.
Del monastero s’impossessò il demanio e fu spogliato d’ogni oggetto di valore; le cento pregevolissime pitture della pinacoteca passarono per la maggior parte al Comune. Il Monastero, consegnato dal governo francese a quello austriaco e da questo a quello italiano, fu prima adibito ad ospizio di soldati invalidi, poi ad ospedale militare ed infine a caserma. Travolta nella guerra 1915-1918 servì da magazzino militare e da dormitorio alle truppe. Il 22 giugno 1917 Papa Benedetto XV ricostituì l’abbazia di Santa Giustina con tutti i suoi antichi diritti e privilegi, affidandone provvisoriamente l’amministrazione all’Abate della vicina Praglia, che vi pose una comunità di suoi monaci. Il 1° Novembre 1942 si costituì la comunità propria del monastero, la quale il 22 gennaio 1943 elesse, dopo 123 anni di interruzione, il nuovo Abate. Nel 1948, avendo il demanio militare retrocesso al demanio civile una parte dell’ex monastero, questa poté essere restituita alla destinazione primitiva. L’opera della Sovrintendenza ai Monumenti e del Genio Civile, il concorso generoso di enti pubblici e di persone private, ne procurarono il salvataggio e il ripristino.
IL CORRIDOIO DEI MARTIRI ED IL SACELLO DI SAN PROSDOCIMO
Costruito nel 1564 per unire la Cappella di S. Prosdocimo con la chiesa attuale, è un ambiente di piacevoli proporzioni, con buone decorazioni contemporanee.
Qui si può vedere dentro una gabbia medioevale di ferro, la cassa di legno che custodì per qualche tempo (forse dal 1177 al 1316) il corpo di S. Luca Evangelista.
Nel mezzo il bel pozzo (1565), adorno di eleganti decorazioni in niello, sotto il quale, su un tratto di pavimento in mosaico della Basilica Opilioniana, posa il primitivo pozzo del sec. XIII, contenente le ossa dei Ss. Martiri. Sulla destra, sotto vetro è visibile un lacerto di pavimento a mosaico della Basilica paleocristiana (Sec. V- VI).
Sopra il pozzo dei Martiri: pitture della cupola: di Giacomo Ceruti (1750 circa).
In fondo, sull’altare: Il ritrovamento del pozzo dei Martiri, con la miracolosa accensione delle 12 candeline: bella tela di Pietro Damini (1592-1631), piena di ritratti.
Scendendo: il muro a destra è un tratto del fianco meridionale della chiesa medioevale riedificato sulla corrispondente parete della Basilica Opilioniana. Le due bifore sono ricostruzioni (1923) su tenui tracce di due imposte di archi. Porta che immette nella cappella di S. Prosdocimo (1564). Ai lati: statue dei Ss. Pietro e Paolo, di Francesco Segala. Sono due delle undici statue eseguite da lui in terracotta (1564) per la nuova decorazione della cappella di S. Prosdocimo; sono oggi conservate nella Sala rossa all’interno del Monastero.
Sopra la porta, ai lati dell’iscrizione: il pellicano, la fenice: calchi di finissimi bassorilievi in marmo greco del sec. XVI. Gli originali furono tolti di qui per permettere la visione del-le belle sculture del sec. XIII o XIV, che portavano nel retro. Oggi sono visibili nell’atrio della Sacrestia.
Prosdocimo, verosimilmente primo vescovo della chiesa padovana (sec. III-IV), è rappresentato in una «imago clipeata» di marmo (inizi del sec. VI), riscoperta durante la ricognizione della sua salma nell’omonimo oratorio in S. Giustina (1957). Il suo culto e la devozione è confermata anche fuori del territorio padovano prima del Mille. L’iconografia lo presenta con il pastorale e l’ampolla dell’acqua battesimale in mano: simboli della sua missione pastorale in città e in diocesi. L’antica liturgia ne celebra la fedeltà al Vangelo e all’insegnamento degli Apostoli.
Il Sacello è un cimelio di arte paleocristiana, preziosissimo per l’antichità, la completezza, le rarissime opere d’arte che custodisce. Fu costruito (tra il 450 e il 520) dal patrizio Opilione unitamente alla basilica, al sommo della cui navata destra era innestato, allo spigolo tra levante e mezzogiorno.
Orientato come la basilica, comunicava con questa mediante l’atriolo di occidente. È uno dei più begli esempi di quegli oratori, di cui l’antichità cristiana circondava i maggiori edifici di culto: oratori destinati a devozioni particolari di singole persone, fisiche o mora-li, e verso singoli Santi (qui, secondo un costume diffusissimo nei secoli IV-VI, si venera-vano reliquie di Santi Apostoli e Martiri); e anche a sepoltura di insigni personaggi.
Più sviluppato e più perfetto dei più fra i sacelli analoghi, il Sacello di San Prosdocimo consta di un quadrato centrale, cui sono innestate quattro corte braccia coperte di volta a botte; il braccio orientale, absidato; il quadrato centrale è sormontato da cupola emisferica ad esso collegata mediante quattro pennacchi a quarto di sfera. Come nella basilica annessa, le pareti erano rivestite di tavole di marmi preziosi; dall’imposta degli archi in su tutto era coperto di mosaici. Il braccio settentrionale immetteva in una sala, forse destinata ad accogliere sarcofagi di illustri personaggi. Nell’atrio ricostruito è possibile ammirare il Timpano di porta della basilica opilioniana (sec. V-VI), e un pluteo di marmo greco del sec. VI; rarissimo perché doppio.
In fondo: frontone triangolare (timpano di porta, sec. V-VI), con la iscrizione dedicatoria della Basilica e del Sacello: «Opilio vir clarissimus et inlustris, praefectus praetorio atque patricius, hanc basilicam vel oratorium in honorem sanctae Justinae Martyris a fundamentis caeptam Deo iuvante perfecit». Nel sacello a destra: altare di S. Prosdocimo (1564), sarcofago romano di marmo pario, trovato (1564) nel terreno sotto il pavimento (conteneva i corpi di due Vescovi, allora deposti altrove) e adibito da allora a custodia del corpo di S. Prosdocimo. Nel paliotto S. Prosdocimo giacente, tra due Angeli ceroferari: bella scultura di ignoto (1564 – Marcantonio De Surdis).
Sopra l’altare si trova una stupenda immagine in marmo greco, di S. Prosdocimo (Sec. V-VI): rappresenta il Santo nell’eterna giovinezza del paradiso, simboleggiata dai due palmizi laterali. Porta la scritta contemporanea: «Sanctus Prosdocimus Episcopus et Confessor».
In origine era la parte centrale della fronte di un sarcofago: tagliata poi per essere inserita in altro monumento (come lo mostrano i due battenti laterali) fu posata, come autenticazione, sull’arca in cui nel sottosuolo furono nascoste le ossa del Santo; scoperta nell’esumazione del 1564, accompagnò nel 1565 le sacre ossa entro l’altare, ove fu ritrovata nel 1957.
A sinistra, davanti all’altare principale: la preziosa pergula o iconostasi, l’unica del secolo VI che ci sia pervenuta integra. Uniche manomissioni: l’ultima colonna di destra, e i due capitelli estremi a destra e a sinistra, opera del Rinascimento. Come in tutte le antiche chiese, segnava la necessaria separazione tra clero e popolo, come oggi la balaustra e nello stesso tempo accentuava il carattere sacro del presbiterio e dell’altare. È di marmo greco (si notino le colonne tutte di un pezzo con gli altissimi piedistalli, e l’arco di mezzo a ferro di cavallo).
L’iscrizione, contemporanea, dice: «In nomine Dei. In hoc loco conlocatae sunt reliquiae sanctorum Apostolorum et plurimorum Martyrum qui pro conditore omniunque fidelium plebe orare dignentur .
(In nome di Dio: in questo luogo sono state collocate le reliquie dei SS. Apostoli e di moltissimi Martiri, i quali si degnino di pregare per il fondatore e per tutto il popolo di Dio).
Si ritorni in chiesa per la stessa via. Dall’arco dietro l’altare di S. Mattia: bello sguardo sulla maestosa e semplicissima crociera della Basilica.
Museo la Specola
Nell'immaginario collettivo di molti padovani, e non solo, la torre della Specola è associata al nome di Galileo, essendo confusa con il luogo dal quale, secondo una falsa tradizione, il celebre pisano eseguì le sue straordinarie scoperte astronomiche.
In realtà l'Osservatorio astronomico di Padova, sito all’interno della Specola, non fu mai frequentato dal famoso scienziato, perchè la sua edificazione sulla pre-esistente torre maggiore del Castelvecchio della città non fu messa in atto se non a partire dal 1767, cioè circa 150 anni dopo che Galileo lasciò Padova per trasferirsi a Firenze, alla corte dei Medici.
Pur privato di questo mito, il visitatore che viene accolto al Museo La Specola non resta comunque deluso nelle sue aspettative, ma incontra e si confronta con un luogo pieno di fascino.
Nato come gabinetto universitario, nel 1923 l'Osservatorio Astronomico di Padova divenne un ente giuridico autonomo, mantenendo la sede della Specola e la proprietà di tutti gli strumenti; come tale attraversò tutto il XX secolo. Nel 2002, persa la sua personalità giuridica, esso è divenuto una delle principali strutture di ricerca dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l'Ente di Ricerca nazionale preposto allo studio della scienza del cielo.
L’Osservatorio, infatti, che da oltre due secoli produce ricerca di alta qualità a livello internazionale, dal 1994 ha scelto di aprire alla città il suo nucleo più antico, la torre appunto, trasformandola in museo astronomico.
Il percorso museale si snoda ora attraverso tutta la torre (200 gradini, senza ascensore), toccando tutte le sale utilizzate dagli astronomi padovani dei secoli scorsi, ove sono in esposizione gli antichi strumenti.
Oratorio San Michele Arcangelo
L'edificio che vediamo oggi è quanto rimane dell'antica chiesa dedicata a San Michele e ai Santi Arcangeli, che ospitava anche altri affreschi di Jacopo da Verona. La Cappella di Santa Maria fu eretta a seguito di un incendio, avvenuto durante l'assedio del vicino Castelvecchio nel corso della riconquista di Padova ai Visconti da parte dell'ultimo Signore, Francesco II Novello da Carrara.
Gli affreschi che decorano la cappella di Santa Maria della chiesa di San Michele, realizzati nel 1397 da Jacopo da Verona, sono incentrati sul ciclo mariano. I soggetti rappresentati sono Annunciazione, Natività e Adorazione dei magi, Ascensione, Pentecoste, Morte della Vergine e San Michele. Nel sottarco della cappella busti di Evangelisti e Dottori della Chiesa. Una lapide ancora in sito conferma la paternità di Jacopo da Verona e testimonia che la Cappella fu voluta nel 1397 da Piero, figlio di Bartolomeo de Bovi, cugino di Piero di Bonaventura, ufficiale della zecca dei Carraresi. L'attuale edificio è frutto di un ampliamento ottocentesco. Altri lacerti di affreschi, anche cinquecenteschi, decorano le parti già pertinenti alla navata.
Dagli affreschi emerge la figura di un pittore eclettico, che accanto agli elementi derivati dalla formazione presso Altichiero, della cui arte offre una visione più domestica, ne accoglie altri presi da Giotto, Avanzi e Giusto Menabuoi. Il tono borghese e, si potrebbe dire, quotidiano della decorazione si contrappone alle eleganze aristocratiche che avevano caratterizzato la cultura figurativa cittadina negli anni immediatamente precedenti. Ancora una volta è particolarmente insistente l'attenzione ritrattistica nelle scene dell'Adorazione dei Magi e della Dormitio Virginis. In quest'ultima compaiono personaggi che sono stati variamente identificati in Petrarca, Francesco il Vecchio e Francesco II Novello da Carrara e lo stesso Bovi raffigurato a capo scoperto in primo piano.
E' stato ipotizzato, che qui Jacopo abbia lavorato con aiuti, forse i suoi due figli, ricordati dai documenti come pittori.
(fonte: https://padovacultura.padovanet.it/it/musei/oratorio-di-san-michele)